venerdì 24 gennaio 2014

L'Ultima thule per Guccini



Il


cantastorie

di Matteo Tassinari 
Si vive smarrendo tutto, gioie e dolori, come fosse merce che non c'appartenesse, ma alla fine si ritrova tutto, la chiusura dei giochi ci ricorda tutto quello che ci siamo dimenticati, anche nell'arco di pochi secondi può accadere tutto ciò. In una canzone, in un libro, in un racconto, in un fumetto, in una novella orale, in una scopata, in una tenerezza clemente, in un amore montanaro che recita Dante all'impronta, non tutto, ma una buona parte. Guccini ha il dono innato del racconta storie, dell’illustratore a voce (grande dono fatto a pochi) che non ti stancheresti mai ad ascoltarlo, sia per l’ironia che per l’intelligenza acuta e contadina. Un narratore di prim'ordine, come fosse un mestiere, lui parla di tutto accompagnato dalla forza che offre il buon rosso dalle 23 fino alle 5 del mattino nelle casinare osterie di Bologna in odor di Toscana, dotta e inumana, grazie all'amante di Tex.
Il bel
Maestrone 
affidabile, bello, cresciuto a castagne ed erba spagna e tanta fantasia di chi vive la felice "segregazione" della montagna accennata, proprio come Pavana dove Guccini ritrova se stesso e non ci vuole molto a capire che la sua vecchiaia la vuole passare nel posto che per il poeta in corde, note e voce ha scelto di viverli nel paesino sull'Appenino tosco-emiliano. Di certe favole e peripezie, se hai avuto il beneficio e la casualità di conoscerle, sai a memoria l’inizio, la fine e cosa c’è in mezzo, ma che può variare tutto a seconda dell’umore, del morale e della quantità di vino ora nelle vene accartocciando un pacchetto di sigarette per aprirne un altro. Ma ogni volta è come la prima. Come il brano "L'ultima Thule", il piacere nel capire, tra la coloritura della lingua, delle esagerazioni, degli umori, della voce, nel continuo e superbo adattarsi e integrarsi alle repliche o reazioni di chi ascolta. Pavana, sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi, ora "ricoperta dal bitume".


















Il vecchio leone
alla ricerca della sua tana
L’ultima Thule è l’ultima terra conoscibile, la terra aldilà del mondo conosciuto. Con l’ultima Thule ci ha voluto salutare Francesco Guccini, ed è un addio in musica alla musica. È il suo ultimo album, quello del commiato senza chiasso, senza clamore, quasi in punta di piedi ha scelto di incontrare la stampa in uno di quei posti che ci si dimentica che esistano ancora, eppure ci sono, siamo noi caso mai ad averli dimenticati. Un circolo reduci e combattenti, tra partite a carte, bicchieri di spuma e bianchino e luci da balera, che ha raccontato per tanti anni le ansie, le speranze, le paure ed i sogni di tante generazioni, ha deciso che 72 anni sono troppi per salire sul palco senza sentirsi ridicoli. E dice: “Cosa faccio adesso? Leggo. Mi alzo la mattina verso le dieci, dieci e mezza, e leggo.

Poi pranzo e guardo i telegiornali e leggo. Ceno e poi leggo”

      Come un Incontro    
Per chi   come me pensa che quella Locomotiva continuerà sempre a correre lungo le rotaie, lanciata sopra i continenti, con una grande forza. Parole che dicevano gli uomini sono tutti uguali. Parole senza tempo che hanno la stessa identica forza di allora. Un grande scenario immaginario, un affresco titanico di speranze, aspirazioni, prospettive di ottimi musicisti misti a ciabattari che non riuscivano a prendere un Fa diesis, è tutto il nostro "arnese", le favole divenute memorabili come Cencio il nano. Nato nell'ormai divenuta famosa Pavàna, un paesino di 800 abitanti ai piedi dell’Appennino, tagliata dal fiume Limentra: “Il suono dell’acqua del Limentra è diverso da qualsiasi altro agglomerato d’acqua esistente al mondo”. Si sa dove inizia, ma non dove finisce e intanto non succede mai niente di preciso. Ci si gratta e si parla bevendo Lambrusco e giocando a marafone, gioco a carte diffuso in Emilia Romagna.
Pavana
Per Guccini, Pavana, è ciò che Macondo è stato per Gabriel Garcia Marquez in “Cent’anni di solitudine”
E poi via Paolo Fabbri,
con la sua strada placida e alberata, le case rosso mattone e la stazione vicino a ricordarci un’altra Locomotiva. La trattoria da Vito, dove era fisso anche Lucio Dalla, Claudio Lolli e musicisti vari dall’equipe 84 ai Nomadi, sempre uguale, posto rassicurante, come il bowling per “Il grande Lebowski” dei Coen. Mentre fuori a porta san Vitale scoppia il mondo, da Vito potevi tranquillamente tirare tardi fino al mattino, tutto tra una scopa, una puttanata e due quartini. Per il momento. Negli anni ’70, Guccini è sinonimo di protesta. I giovani cantano insieme a lui perché sentono il vigore d’esserci in quel momento, perché l’importante, qualche volta, è proprio l’esserci, il non farsi sempre raccontare o leggere, ma anche cantare in 10mila insieme "La locomotiva" in un palazzetto dello sport, con un ritmo serrato che ti fa provare l'emozione di quel macchinista ferroviere, tal anarchico Pietro Rigosi, 28 anni, sposato e padre di due bambine di tre anni e dieci mesi. Poco prima delle 5 pomeridiane del 20 luglio 1893 Rigosi che s'impadronì di una locomotiva sganciata da un treno merci nei pressi della stazione di Poggio Renatico e si diresse alla velocità di 50 km/h, che per quei tempi era una velocità notevole verso la stazione di Bologna schiantandosi con un treno pieno di signori, quella volta decise Pietro Rigosi cosa fare di loro.
In    una notte,
per la cronaca, il personale tecnico della stazione deviò la corsa della locomotiva su un binario morto, dove si schiantò contro sei carri merci in sosta. L'impatto fu tremendo ma l'uomo fortunatamente sbalzò via durante l'urto e sopravvisse nonostante il violentissimo impatto. Gli venne amputata una gamba e rimase sfigurato in viso. Dopo due mesi venne dimesso dall'ospedale ed esonerato dal servizio in ferrovia per motivi di salute. Più di otto minuti di canzone e parole che rapiscono l'attenzione e la voglia di partecipare a quel canto liberatorio del senso di giustizia proletaria. Guccini, La locomotiva, la lasciava sempre come ultima canzone della Track-list (scaletta) proprio per quel potere arcaico e taumaturgico che riesce a trasmettere al pubblico questo brano che lo stesso autore scrisse in una nottata, di getto, praticamente in un'ora.
A    suon
di   rima baciata
Da Vito partivano gare in ottava rima, poesie a braccio, contro Umberto Eco e Roberto Benigni: “Eco era imbattibile, ovviamente. Ma io me la cavicchiavo, lo mettevo in difficoltà. Benigni finiva che la buttava quasi sempre sul volgare e sul mimico, e su questo era imbattibile”. La sinistra è anche Vito, l’osteria a due passi da via Paolo Fabbri 43, fuori porta San Vitale, quartiere Cirenaica, un tempo culla di Guccini.
E    Corso poetava
Una  notte, ricorda Guccini, entrò Stefano Bonaga trafelatissimo, per dire di un incendio e corremmo. Il caso volle che con noi ci fosse anche il poeta della Beat Generation Gregory Corso. Non so cosa, ma Gregory s'eccitò di fronte a tutto quel fuoco e si mise a declamare versi innanzi a fiamme alte dieci piani in preda ad uno dei suoi momenti di follia alcolica e lisergica. Lo allontanai dal fuoco. Bologna, i ricordi sono un oceano che ti travolge e tu non fai nulla per salvarti, lasciandoti rapire da un insieme di situazioni e personaggi che ti "costituiscono", e non mi riferisco solo a Gregory Corso, che rimane un poeta della Beat, ma anche a gente della bohemienne emiliana. I portici erano volti che cambiavano ogni sera. Amici che prendono altri sentieri e le vacche a Pavana che muggiscono perché devono fare comunque sempre il latte. Alla fine, non mi poteva andare meglio se penso a come mi sono tuffato nella vita.



Lucio?    
Un flipper
“Se Lucio mi manca? Non ci frequentavamo da tempo e comunque era sempre Vito il posto dove potesse uscire qualcosa. Memorabile una sera: io, lui e Vecchioni che cantiamo Porta Romana. Credo che Lucio sperimentasse e volesse continuare a sperimentare strade nuove. Era un virtuoso dello strumento che suonava. Era così, un personaggio multiforme e imprevedibile anche nella vita con una sensibilità spiccata verso i sofferenti. Forse il più imprevedibile del gruppo”. Sono tante le parole che potrebbero indicizzare il Maestrone. Anarchico, panteista, per nulla ostico e molto agnostico. Cantore del dubbio, convinto che fare domande sia meglio che azzardare risposte perché interrogarsi presuppone ricerca e a rispondere si rischia l’arroganza. Fumatore di gesto, non di respiro, le sue sigarette sono sempre fumate fino a metà, mai intere. L’accenderle è più un’abitudine più che il risultato di una dipendenza di nicotina. Un autentico astrologo al contrario: “Cantare il tempo andato è il mio tema”. I suoi personaggi non sempre conoscono la benedizione del lieto fine ma si tengono stretti la consolazione della memoria, quella che fa caldo quando improvvisamente intorno a te s’è fatto il gelo. Lo chiamano il cantautore con l’Eskimo (ma lui l’Eskimo l’avrà indossato si e no 10 volte in tutta la sua vita, si è limitato d’inserirlo in una canzone e da allora…).

"Il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere"



















Custodire      i ricordi, carezzare     le età
Alcuni gli lamentano il   fatto di portarsi sempre sul palco non un fiasco di vino, lui detesta il fiasco. Vi sfido a trovare una foto dove Francesco tracanna sangiovese da un fiasco. Sono sempre bottiglie e lui ci tiene a rimarcare questo fatto. Il vino lo si beve dal vetro non impagliato. No al fiasco, si alla bocia. Poi c'è chi lo rimproverava di portare in scena il ’68 e la vecchia cultura di sinistra solo perché veste, tutt'ora, sempre con Clark’s, jeans, maglione e camicia. Tra tutti questi sciocchi luoghi comuni (per la verità ormai quasi disabitati) uno solo è veramente molesto e ingrato, quello che lo accusa di scrivere da trentanni la stessa canzone. Una cattiveria come tante, come quando Keith Richards disse di essersi tirato un grammo di cocaina mista alle ceneri di suo padre morto 15 anni fa, per poi smentire tutto dopo una settimana. La cornacchia dei Rolling non è battuto da nessuno in quanto Dark-Noir-Style.
Tornando a Guccini,

sarebbe sufficiente ascoltare i suoi dischi con attenzione, per rendersi conto che come fiumi carsici fanno spazio a mille tranelli come i vecchi trumeau. Sono dischi a doppio fondo, a doppia memoria e in certi casi a doppio senso con lo stesso fraseggio, pur riconoscendo l’ispirazione musicale primaria, la ballata alla Dylan, Song Route 66, l'America. Fra la via Emila e il West. Si tratta, del resto, d’inesattezze ampiamente compensate dall’amore di chi lo segue da anni e ne apprezza la coerenza, oltre che la bravura. Dopo De André, ho sempre posto Guccini, Conte e Capossela allo stesso livello, tutti secondi. D’innegabile per chiunque c’è la sua straordinaria abilità nel farsi burattinaio di parole, tanto in canzone quanto in prosa. Non è un poeta, per sua stessa ammissione, nonostante gli sia stato assegnato il Premio Montale (e scusate se è poco, poeti del Web!).

Ho ancora
la forza
Scherza,
con doveroso rispetto, anche della sua casuae omonimia con l'attuale Papa, definendolo un personaggio che ci riserverà dolci sorprese. "Quando ho sentito la piazza che gridava 'Francesco, Francesco' mi sono detto: Mi sembra di averlo già sentito, sebbene in misura minore. In realtà io lo sapevo già. Papa Francesco mi aveva telefonato prima del conclave, anticipandomi di volersi chiamare come me. Io ovviamente gli ho detto che era una bella idea, ma di non dimenticarsi di quell'altro Francesco, quello d'Assisi, quello che si spogliò di tutto per vivere da povero". Non perde occasione per rendere il clima più surreale e ironico, lasciando comunque la sua traccia mai goffa o fuori luogo: "se devo sparare cazzate, piuttosto sto zitto". Che siano queste le sue medicine per invecchiare così alla grande? Della politica è rimasto sbalordito della violenza di Beppe Grillo definendolo troppo feroce, violento con i suoi eletti. Effettivamente, se non si fida neanche di loro, cosa fa politica a fare?
L'ultimo disco di Francesco Guccini, uscito il 27 novembre 2012
Vacca di un cane


Tecnicamente, si dice che il pezzo di una canzone è riuscito quando rimane celibe se letto in assenza della musica e che una canzone è davvero tale quando il risultato è superiore alla somma di parole e musica. Anche sotto questo aspetto, appare chiara la parabola gucciniana tutt’altro che statica. Agli inizi con parole semplici e forti, gli ultimi tempi, con azzardate e riuscite allitterazioni: “Perché fra i libri schiacciare rose di risa paghe e piene delle spose”, versi coraggiosi, “E una notte lasciasti portarti via” e atmosfere struggenti: “E correndo m’incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei”.
Guccini: "Sono anarchico e libertario. Ma lascio aperta la porta a Dio"
La bomba
 proletaria
Semmai, quel che incuriosisce è la variazione sul tema. Se ne La locomotiva ”aria” faceva rima con bomba proletaria “La bomba proletaria che illuminava l’aria”, in Non bisognerebbe “aria” bacia la “pista solitaria” ("come un cane che alza il muso e annusa l’aria, batti sempre la tua pista solitaria”).
Diversa è la lingua letteraria. Se Gadda e Meneghello inserivano le voci dialettali in un contesto alto, Guccini opera in direzione opposta, spruzzando appena d’italiano il pastiche della lingua orale e regionale, densa di anacoluti e incongruenze, slang e invenzioni. Se di flusso si vuole parlare, non è joyciano, semmai è quello che Franco Bernini chiama flusso di magnetofono. Un parlato che oggi non esiste più, accarezzare i ricordi, ricordare le età. Tutta materia di rabdomante che procede metro dopo metro con l'esaurimento di quella vena insaziabile, non è rossa come il vino, non è trasparente come l'acqua, è rossa come la passione di vivere e di morire per poi rivivere. Dove? Ragazzi, non vi pare di chiedere troppo? Non saprei... Le mie speranze le conoscete e poi anche se non le conosceste, che cambierebbe al mondo? Quindi, già in partenza, denotiamo che è un discorso poco interessante, degno di essere abbandonato e non pagare alcun fio. 
















 Il dizionario
Il maestrone di   Pavana oggi ha 73 primavere sulle spalle e lui lo dice che iniziano a pesare annunciando il suo ritiro dalle scene e che non inciderà più canzoni. Il suo ultimo disco e le sue canzoni storiche gireranno in tour comunque attraverso Biondini, Tempera, Marangolo e Mingotti, gli ultimi musicisti con i quali s’è ritrovato a fine carriera. Hanno rifiutato invece Ellade Bandini e Roberto Manuzzi. La chitarra Guccini l’ha appesa al chiodo. Lasciata in un angolo della sua casa di Pavana dove ora vorrebbe restare a scrivere e leggere. Il cantante lavora alla seconda parte de “Il dizionario delle cose perdute” e con Loriano Machiavelli scriverà libri gialli.
Foto storica: Guccini e De André
I ragazzi 
della Band

Un lungo saluto
alla musica che a fatica gli appassionati e i critici sono riusciti ad accettare, ma non tutti. “Ho tre chitarre appoggiate al muro”, così aveva cercato di spiegare Guccini nell’ultimo incontro alla storica osteria da Vito a Bologna, “Non le prendo mai in mano, vorrà dire qualcosa? Gli ultimi tempi mi veniva male anche ai polpastrelli, l'allenamento vuol dire, i calli col tempo se ne vanno dalle falange. Ma questo non significa che non faccia più nulla. Continuo a fare altre cose. Non penso mai durante il giorno alla musica, a comporre, a suonare la chitarra. Mai” a detto da Fazio poche sere fa. E l’addio alla musica lo fa con il cuore più leggero adesso che sa che ci saranno i “ragazzi” della vecchia band a suonare i testi di un’intera carriera pluri 40ennale. Anche se, come ha detto il mio amico Fernando, quando uno del peso e dell'altezza come Guccini, non solo fisicamente ma soprattutto musicalmente e culturalmente abbandona, rimane sul volto una segno velato di tristezza. "La barba aiuta".