domenica 5 gennaio 2014

Conte esoticamente parigino

 *Tutto un "complesso" di cose*

di Matteo Tassinari

Un cultore  di enigmistica classica come Paolo Conte è il più amorevole ed esperto nello spostare le parole e posizionarle al suo posto, nel contorcere le sillabe come il miglior alfabetiere conosciuto sullo scacchiere, più di quanto siano tutti gli autori (eccezion fatta per Vinicio Capossela) che provano, ma non gl'arrivano. Se nel sesto disco, quello centrale della carriera di "Paolo Conte" che recita proprio il suo nome e cognome come titolo, i testi erano quantitativamente minori, ma per qualità pur sempre perfettamente amalgamati con la musica. A realizzare comunque una specifica forma-canzone, nella successiva raccolta di nuovi pezzi. I testi sembrano ormai definitivamente un accessorio subalterno alla musica, pur segnando di per sé esiti mirabili come sempre (ad esempio nella gozzaniana Dopo le sei). Max (canzone-campione, in Olanda Disco d'Oro e di Platino, anche in 45 giri) e il suo fascino nell'assenza stessa di testo, nella sola atmosfera e in quel ripetere ossessivo la stessa frase musicale e la profonda Sparring Partner.




















Un Kazoo felliniano
Nessuno mi ama è musicalmente straripante: un iniziale clima soffuso, con piano sax e contrabbasso una tromba in sordina che viene da lontano come un Nino Rota in un film di Fellini, quindi un'esplosione di voci e fiati. Un sassofono solo e disperato introduce la melodia di Jimmy ballando, non pensare, zitto, che il nemico ci ascolta, oh Jimmy, non giurare con te stesso. E' l'ultima volta. Ne abbiamo viste tante di regine andare sull'altro marciapiedi al sole e noi nell'ombra è sempre così, Jimmy, ridendo e scherzando, per poi aprirsi alla Irving Berlin. Qualche brano, è essenzialmente una suite strumentale, starei quasi per dire piccolo poema sinfonico novecentesco.
Jimmy       sballando, ballando
Non trattasi più di canzonetta, ma di confezione internazionale per un mercato internazionale, ineccepibile ovunque, che si canti a Parigi o ad Abbiategrasso, a NewYork o a Bollate, a San Paolo del Brasile o a Frosinone. Riprendo in oggetto le storie, le sagome, le ombre, le silhouette, i clichè di Conte, che in questi decenni hanno offerto uno scrigno di bellezze esoticamente parigine. Una "Guaracha Lutetia Parisiorum" o un "Razzmatazz" della Belle époque del barone Haussmann. Le "Black Queen" in un "Novecento" di "Luna Marmellata" per aver delle facce in prestito che si domandano "Cosa sai di me?". Ma "Madeleine" non sa rispondere al "Macaco", e "Gonzo", si sa, ha il passo pesante, lo senti, prima di vederlo. E' una magia col trucco, narra il Conte ed i suoi baffi.
Conte
canta alquanto incanta
Conte canta ancora, certo, e anzi sembra esser potuto passare a suoni di più serio spessore proprio perché parallelamente ha educato la voce a crescere nel primo periodo, in fondo, i suoni dei dischi erano intelligentemente adeguati alla "povertà" maldestra del canto e anche dal vivo, quando stava al pianoforte (magari verticale) era uno sferragliare alla guida di un trabiccolo somigliante più all'automobile. Per esempio molte sono le sue esperienze di musiche di scena come autore di colonne sonore per il cinema e per il teatro. Ebbene, è significativo che alcune di quelle che oggi noi conosciamo come canzoni esistevano già come temi strumentali scritti per il cinema (Sparring partner, Jimmy ballando, Hesitation) e là dove nei film è previsto un testo originale, questo è un testo immancabilmente criptico, a volte mono-verbale, altre volte maccheronico, in inglese, in francese, in spagnolo o in napoletano (ancora Sparring Partner, Macaco, Le chic et le charme, tapis roulant, Sontuoso misto mare, Locomotor, Habanera).
Assolutamente
principianti
Su alcuni di questi brani i versi italiani che abbiamo poi conosciuto dai dischi sono stati dunque aggiunti occasionalmente più avanti nel tempo. "Ho sempre tenuto a questo tipo di lavoro", mi disse Conte in un'intervista del 1993. "Mi piace sceneggiare la musica, lavorare per lo spettacolo, le colonne sonore, mi piace lavorare con il cinema rimanendo sempre nel mio spazio di esibizione. Questo potrebbe essere il mio mestiere perfetto". Era quasi perfetto anche quando parlava: d'incantato. Incantato dall'adolescente che sono, dal fatto che Conte è un vero poeta, incantato perché a parlarci avverti che non parli con una persona qualunque, non c'è niente da fare e non è razzismo culturale, che idiozia. Forse sono davvero un eterno principiante, come piace a David Bowie in Absolute beginners. Lo sono di sicuro, va la. 

Scrigni di bellezze

I critici letterari hanno una loro idea della letteratura che spesso non è la mia. Conte è tante cose messe assieme e sviluppate come un acrobata contorsionista. L'abecedario dell'intimità relazionata, il compendio di un frammento, la summa di un'epopea leggendaria, in breve, un autore "alto" di  letteratura contemporanea. Come dire, ognuno al suo posto con quel briciolo di modestia che contraddistingue senza scomodare Benedetto Croce, il quale diceva che "fino ai 18 anni, tutti scriviamo poesie, poi, col tempo, rimangono due categorie: i poeti e i cretini". Del resto, l'ho messo anche come mio incipit.
I Jazz street players, New Orleans

L'Olimpo Politeama


Piemontese di nascita e vita, ma con la mente, il cuore e baffi di lontani posti sudamericani, ParigiNew Orleans, Chicago e un pubblico diffuso in tutto il mondo ad aspettarlo ad ogni tappa, come in una roulette. Un mondo rituale, a scadenze fisse affondato nella terra, minacciato ma non del tutto violato dalle rapide trasformazioni e dalla comunicazione di massa, ritrovando e custodendo matrici che non dovremo aver perduto per sempre. Almeno me lo auguro.
Teatro Politeama

Sta arrivando
Gongo
Dove l'andare è un divenire anche se Conte vi si pone con taglio vivo e moderno. Un distacco illuminista e nobile, dell'ironia selvatica, critica, violenta, anche plebea, eppure lieve e cavallerescamente auto-ironico. Mai prendersi sul serio, non so se l'abbia detta mai questa frase, ma nelle sue canzoni si respira questo concetto basico. Assoluto disinteresse per l'attualità e tutto ciò che la circonda, ma non per la storia che ama. Un macaco senza storia in pratica, che si sente, come Gongo, prima che arrivi. I rumori annunciano il suo ingresso sulla scena del Politeama, porta volta verso il successo e la gloria.
Il fascino che resiste al tempo e ai grandi cambiamenti

L'incantesimo degli anni '20


"Pretend" è un perfetto falso storico, quando Paul Whiteman o Jack Hylton riuscivano a mettere insieme jazz ballabili, musical e melodie d'opera. Rag-Time ironizzato (ironia al quadrato), lo stride-piano di Harlem, la disinvoltura soriniona e imparata da Fats Waller, il clarino francesizzato di Sidney Bechet (magari attraverso la parodia del Kazoo e la scuola parigina di Charles Trenet"Non è che che abbia nostalgia degli anni venti" disse Conte a Le Monde"E' piuttosto una ricerca d'identità, perché in quegli avvennero, a ritmo serrato, cose fondamentali per la nostra formazione, fatti esteticamente rivoluzionari come la musica atonale le avanguardie pittoriche, il cinema sonoro, e appunto l'arrivo del Jazz in Europa". Sono gli anni di Jelly Roll Morton e di Armstrong, scusate se è poco. In confronto a queste, tutte le altre rivoluzioni successive, mi sembrano di retro-guardia. Conte, come Josèphine Baker, è dunque un mediatore di miti: quello tropicale, americano ed europeo. Un traduttore attuale e leggibile di alcuni modelli che lui, e non solo lui, ha masticato. Eppure, dopo questa incredibile sintesi di mediazioni disperate, Conte riesce a restituirci, al di la delle forme più o meno architettate, una sorta di potenziale canzone. Un dedalo di note e grappoli di semitoni da sbrigare nel volgere di un paio di plettrate o nel bongo dove rimbalza il gomito del tucano.  















 Le origini    
circensi   del      Conte
Fu così che  c’innamorammo tutti, chi prima chi dopo, di Paolo Conte. Tutti a scriverne squisitamente, tutti d’accordo nel cantarne le lodi di un artista così diverso dagli altri, così unico, così stupefacente, così baffuto. Uno spettacolo d’arte varia, in un eccellente cornice orchestrale. Una presenza originale e intrusiva, per chi ci coccia, nella scena musicale del nostro tempo., che da decenni si esprime con dischi e concerti soprattutto testardamente speciali. Un grande autore della letteratura moderna, azzardo io, che non dimentica d'essere un "equilibrista" (definizione del diretto interessato) che in concerto deve arrivare in fondo. E se arriva l'applauso, è proprio l'applauso da circo, da saltimbanco che gli interessa, più delle ricerche che qualche musicofilo da jam-Session ha sviluppato, magari molto bene, delle sue canzoni.  Le origini ancestrali invece del Conte, come quelle di Omero e Ipponatte sono a tutt’oggi incerte. Per approssimazione, la data di nascita dell’artista piemontese coincide con quella del suo concittadino Vittorio Alfieri poco meno di 200 anni dopo, entrambi nati in gennaio, capricorno per quel che vale. Gli anni dell’adolescenza e della mescolanza dei Gender-Music-High, segneranno indelebilmente la vita di Paolo Conte. Trascorre i suoi pomeriggi leggendo SalgariVerneDickens Pedrito El Drito, personaggio di Antonio Terenghi, in breve il meglio della lettura romantica e avventurosa in circolazione durante i primi anni 50. Tutto il resto era già Francia.

 Conte ad Amsterdam suona "Max", 1988. Tutto il resto, è già poesia

Sotto le stelle illuminate del jazz










L'andare era

un divenire

Siamo nel cuore del favoloso ventennio ‘50-’60Conte comincia a scrivere canzoni per tutti a raffica senza calcar le assi chiodate. Inizia a studiare pianoforte con esiti strepitosi. Ha modo di conoscere le Pop Star della belle époque e dedicandosi al loro successo con i brani scritti da lui elevando il livello medio del panorama musicale italiano. A Celentano regala "Azzurro", all’Equipe 84 dà "Una giornata sul mare", "Insieme a te non ci sto più" la da a Caterina Caselli, "Mexico e nuvole" per Enzo Jannacci e per Patty Pravo invece scrive "Tripoli ’69" impiegando mesi a spiegarle che non c’è nessun doppio senso nel titolo. Giunge il successo travolgente con canzoni come "Genova per noi", "Onda su onda", "Bartali" (doveva chiamarsi Merckx, ma con le rime come la si metteva dopo?), che consacra Conte come il più originale degli autori italiani in attività. Ma è giunto il momento. Conte decide d’interpretare le proprie canzoni. Nonostante il successo mondiale non dimentica chi gli è stato vicino agli esordi. Ed è proprio a Celentano, all’intramontabile interprete di "Azzurro", che Conte gli dedica un altro dei suoi capolavori: "Macaco". Senza offesa per nessuno dei due.
René, Dud e Paolo Conte in un fumetto di Hugh Faymen


Mi avrai,
verde Milonga inquieta

Sarebbe ingrato parlare di Conte col consueto metro dei successi ottenuti, le canzoni e nozionismo di vario genere, solo "cont'abilità". Perché ciò che più colpisce di quest’uomo, che ha molto del gorilla-macaco-monkey, quando nel cono di luce creato ad arte che lo incastona in fondo al palcoscenico su un pianoforte a coda e muoversi claudicante che sembra grattarsi mentre suona. In questo gioco musicale, testuale e interpretativo, tra nobile e plebeo, tra l'alto e il basso, in quest'oscillare tra l'aulico e il dimesso, dal realizzato all'abbozzato, dal compiuto al non finito, in questo continuo porgere e sottrarre, esibirsi e ritrarsi, c'è sempre un distacco dalla materia affrontata ancora inusitato a metà anni '70.
 Forse     Atahualpa,
qualche altro dio
Un'autoironia, una coscienza critica che gli permette sempre di  prendere le distanze dallo strumento e orchestra con cui si balocca, ma al tempo stesso glielo fa perfezionare con accuratezza mai appagata. Certi brani confermano la mia idea. Come la visionaria "Max", la malinconica "Languida", esprimono di più con le note che con le parole e senza testo sarebbe solo un bel rumore: "mi avrai, verde milonga inquieta che mi strappi un sorriso di tregua ad ogni accordo, mentre fai dannare le mie dita…. Fin che Atahualpa o qualche altro dio non te dica descansate niño, che continuo io…". Ahhhhh, io sono qui, sono venuto a ballare, sono venuto a guardare, tu, che fai dannare le mie dita su questo tavolo con tasti in bianco e nero.






















La     maratona

surreale del Tango

Fra Paolo  e la musica c’è un amore viscerale. Il Jazz? Una passione. Il Tango? Un’avventura. La Milonga? Una tenerezza. Il Mocambo? Un'allegria. Da ciascuno prende quel che gli serve, cioè il meglio. Un accordo, un arrangiamento, un tempo, un svisata guascona, una doppia battuta d'orchestra, tutto volge al perfezionamento slabrato, vintage, consumato. Per poi tradirli tutti confondendoli (per troppo amore, non v’è dubbio) generando una musica senza tempo sospesa in un limbo dove tutto oscilla, nulla è fermo.












Blù,     Tango,
Blù Tango      blù
IBlues diventa Tango, il Tango diventa “Blues-Tangos”. E questo illanguidisce, culla, commuove, “surrealizza” lo stato d'animo di chi a teatro ha avuto la sana esperienza di ascoltarlo e vederlo pigiare come un operaio sui tasti del pianoforte. Le sue musiche, sempre evocative di un qualcos'altro con risonanze molto sgangherate e sviluppate con sapienza musicalmente anarchica, sono in realtà rifacimenti che permettono più livelli di lettura, dove in una canzone non vi è un solo è univoco messaggio, ma tanti significati e ambasciate in una missiva. Molti percepiscono la musica di Conte come un Jazz antiquato o un blues andato, straniato e stravolto o ancora come una ballata messicana. Forse è un miscuglio di tutti e tre gli stili. Col suo fraseggio, i suoi colori scenici, i trucchetti come il Kazoo, i versi onomatopeici volutamente mai realizzati alla perfezione, sempre un po’ beffardi, mai perfetti, riesce a far passare storie e atmosfere surrealiste o intimiste, come neanche Capossela, se m'è concesso, ha saputo (ancora) esprimere.
Paolo Conte all'Arena di Verona
Graffiando il

"sientimento nuevo"


A proposito delle canzoni di Conte impegnate o a tesi, Paolo è sempre stato molto drastico: “Le idee non ci guadagnano, e l’arte ci rimette”. E’ un dato di fatto che tutte le canzoni di Conte sono apolitiche, atemporali e mai di cronaca. Si può scrivere che va oltre le contingenze per trasformarle in un’avventura umana e personale che si congiunge alla nostra avventura e ai nostri fantasmi. L’elemento che però caratterizza di più l’intera opera di Conte, è certamente quel quid che nessun altro dai paragoni più azzardati che filo-viaggiando da Tom Waits a Vinicio Capossela, è il modo in cui un testo e uno spartito in musica si coagulino in un flusso di sensazioni chiare e di primo spremitura, come con l'hashish migliore, conferendo alle parole una forza nuova e potente, una sfumatura diversa, un “sientimento nuevo”.
Un     Kazoo   
per Mozart
Conte    aggredisce le sue canzoni, le mastica, le sputa, le biascica, le frantuma, le rivolta, scava dentro le atmosfere e ne restituisce il suono primigenio, le lascia a mezz’aria per poi raccoglierle al volo come l'illusionista più giocoliere in un "acrobatico lavoro", ebbe a dire quando nel 1974 si mise in proprio cantando ciò che aveva fatto sempre cantare ad altri. Comincia così, con ineffabile serietà, a storcersi e contorcersi all'altezza del microfono appoggiato sopra il pianoforte che pare quasi stia per mangiarselo. Annaspa, arranca con le mani sui tasti bianchi e neri, fatica star dietro agli archi avviati, brancola, barcolla e sgambetta, brancica, si dibatte finché, spesso accade, non si trasforma nel personaggio che sta cantando.
L'orso al      Kazoo
E la faccia seria si trasforma. Un occhio chiuso, una smorfia nell’altro angolo della bocca e la mano che graffia l’aria come un richiamo per l'orchestra, un segno, un punto che avverti, t'accorgi subito nell'evoluzione degli arrangiamenti musicali. Un orso arruffato che sbadiglia nella sua tana. Poi raccoglie tutta la musica e le parole che ha dentro e le spernacchia nel Kazoo, surrogato di quell’orchestra diretta dal maestro racchiuso nel suo fascio di luce a cono di un riflettore potente, intorno a lui, il buio. Il finale è una miscela che con la sua impetuosa vitalità travolge l’atteso con un inatteso carico di estro, arguzia, spigliatezza, lasciando dentro a chi ascolta, una traccia viva, un sapore inconsueto e contrastante e la consapevolezza, solo accarezzata, di aver visto balenare la poesia, grazie al "vino che spara fulmini e barbariche orazioni che fan sentire il gusto delle alte perfezioni". Ossigeno, ossigeno in più, pompano le casse audio in concerto, le Behringer.

L'orchestra era partita,
decollava
Paolo resta segreto e pudico, fino all’ultima nota, fino all’ultima riga di pentagramma, mai biografie, niente confessioni. L’elissi, lui, le preferisce. Il mistero e i suoi testi, con l’andar degli anni, diventano sempre più sibillini e in Aguaplano (velivolo misterioso ma che gli sembra d’aver visto da qualche parte dell'oceano) offre tutto questo misticismo Bohèmienne all'Osteria dei Binari, fatto di parodie e alberghi tristi e luci che saettano sul volto pechinese della cassiera in un vortice di boogie-boogie che lascia invorniti. Viene voglia di ringraziarlo, perché Conte, come pochi, ha il potere di sottrarci allo squallore del quotidiano per entrare nell'esostismo. Si sa, era lo stesso della migliore tradizione salgariana che, in musica leggera, confondendo la geografia in un bel cocktail tropicale fa cantare bandoleri stanchi laggiù nell'Arizona, chitarre hawayane in bettole messicane, Siringheros di Cauciù perduti nella giungla. Oh, belle bajadere o invocazioni mediterranee al passo doppio del Mostazo mentre il ventilatore ronza immenso dal soffitto esausto. L'esostismo di chi resta a guardare le linee flessuose e serpentine delle Ande non da tregua, come il “florealismo” lussureggiante di un Aristide Bruant, cantante e comico di cabaret francese del secolo scorso rincorreva l'uomo della sciarpa rossa e mantello nero nei dipinti di Lautrec, quando i musicisti, un tutt'uno col soffitto e il pavimento, erano ipnotizzati… dai movimenti di lei che si spandeva nel solito locale. Così sono le canzoni dell'avvocato d'Asti, habituè della collina di Montmartre, la Butte, in certi casi l’epicentro di questa febbre vitale dissipante che contagia tutti e che fa ritrovare fianco a fianco nei ritrovi e nelle sale da ballo demodè o a la pagè, come il vecchio Moulin de la Galette, masticando caramelle alascane in quei cieli adatti ai cavalli con strade e polvere di palcoscenico.













Robadapoco

Il primo indizio è stato il timbro della voce e la densità dei silenzi specialmente negli stacchi improvvisi usati da Colin Gertb nel 1930 a New Orleans con  la sua orchestrina da carretera. Avesse detto anche “robadapoco”, la sua voce è già un fatto, mentre la sua musica disegna luoghi d'avventura e avventurieri, sui ritmi oscuri di una danza vive nel miraggio di una Parigi che accoglie tutti i suoi artisti, pittori mimi e musicisti, offrendo a tutti quel che beve e l’illusione di capire, con l’arte il vivere e il morire, dove l’uomo non ha più niente da regalare.
                               Un gelato al limon
Forse il tempo d’un gelato al limon, oppure quella istriana con la valigia che sta entrando nella sua vita, accompagnata dalla tristezza degli alberghi tristi e dall’intelligenza degli elettricisti. Così, almeno, un po’ di luce, sarà.
Estratto    Conte
Le canzoni romanzate dell’avvocato astigiano arredano un mondo di provincia “universale” con i suoi sapori, umori, rumori. Le nostalgie ziesche, le costanti partenze, la nave come donna di cuore, l'orchestra che si dondolava come un palmizio, le lampade al lampo, i temporali afrodisiaci, chi teneva la porta aperta davanti alla primavera, la pista dei boschetti e poi una città rifatta da ragazzo e ritrovata in parte a Genova, la madre della favole del mondo di Conte. Eppoi la sorpresa evocata, desiderata, agognata, il cammino fra le cose per renderle immense, monumentali, con un’operazione d’odio per tutte le retoriche assenti e presenti. Parte da lontano la sua musica. Attraversa tutto il ‘900 portando con sé lo spirito dolce di un secolo terribile e di tutte le sue varietà musicali. Oscillante fra Jazz e canzone d’autore, raccoglie e fonde varietà musicali. La vena ironica si scopre nelle situazioni narrate per immagini che si accumulano, nel linguaggio brioso e bizzarro, ricco di ritmi e impennate, ma anche nell’interpretazione vocale dell’autore dalla quale è impossibile prescindere. Situazioni che spingono al sorriso o forse sarebbe meglio scrivere alla complicità, senza invitare mai al riso, si dispiegano con naturalezza tigrata o maculata. Persino le immagini che richiamano fughe verso paesaggi esotici lasciano intatta l’impressione di assistere allo scorrere di una pellicola d’epoca. Il linguaggio distante è uno sguardo sul mondo da un’angolatura mai svelata ne capita, offrendo al tutto un’aria di mistero e di non detto per incapacità, forse.

Conte, lei capisce le donne? "Le donne non si capiranno mai. Neanche tra di loro si capiscono, figurati se ci riusciamo noi uomini"
















Forza Paolo, è ora

L’unica volta che intervistai Paolo Conte fu nel 1997 in piena primavera al teatro Petrella di Longiano per la conduzione dell'art-director Sandro Pascucci che sapeva raccogliere il meglio (come anche Fabrizio De André, Fossati, Conte, Capossela...) che gli anni ’90 offrivano e mi sono verggnato come poche altre volte m'è accaduto nel mio lavoro. Lui sarebbe andato in scena alle 21,30. Io arrivo al Petrella alle 21,08 e m’infilo nel back-stage conoscendo a menadito il retrò del teatro, dove attraverso un pertugio nascosto che esiste solo per chi, come me, lo conosce e saltando tutti e silenziosamente mi conduceva verso il camerino degli artisti. M'incammino nel corridoio e incontro proprio lui. Capì subito che la fortuna era con me quella sera. Mi avvicinai, mi presentai e iniziò l’intervista. Durata un quarto d’ora, prima del concerto. Apro il block-notes per accorgermi d'essere privo di biro.



















La pena della penna

Lui sempre più goffo e tranquillo, gentile e sornione, mi offre la sua, una penna a sfera che probabilmente poteva essere di Marcel Proust dallo stile e la laccatura in Peltro turco (mi dice notando e ridendo del mio stupore davanti ad un oggetto semplice ma non comune), incastonata di rubini. Pensai: per fortuna che ho dimenticato la mia Bic a sfera, altrimenti avrei fatto la figura del beghino "collotorto" senza neanche accorgermene. Ammesso che l'abbia poi pensato. Passano velocissimi quei 20 minuti che arriva il mio amico e suo tour-manager Renzo Fantini che gli ricorda sull'incazzato: “Paolo, su, è ora!”, facendomi cenno d'aver pazienza. Capisco, soprattutto sento il rumore del pubblico che ha pagato 50 mila lire per vedere e ascoltare alle 21,30 Paolo Conte. Non mi pareva il caso di approfittare. Annuisco. Paolo Conte resta lì, del resto poco importa. Tanto a Parigi pioveva.