Storie d'AltriMenti
ERRONEA
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di
Matteo Tassinari
La tossicomania non è altro che un sogno d’immortalità, un incanto eterno, una chimera di estasi pari solo al dolore che, puntuale, dopo poche ore è sempre presente. Una condizione che rinvia all’infanzia. L’immortalità dell’anima è una cosa che ci riguarda in modo così forte, e ci tocca così in profondità, che bisogna aver perso ogni sensibilità perché ci sia indifferente sapere come stanno le cose. Con una differenza: da bambini non vogliamo essere immortali perché, semplicemente, lo siamo, mentre chi crede nell’immortalità si goda pure la sua felicità in silenzio, non ha nessun motivo di darsi delle arie, prima o poi il pianto sarà lieto ad accoglierlo.
Non ne sanno nulla i bambini
della morte. Vivono il presente. Dimorano l’evento, ossia l’Eternità. Essi non sanno. Sono. I tossicomani non sono più bambini perché hanno un Io già formato da sapere di poter morire, eppure sono incapaci di accogliere la verità della propria mortalità. I tossicomani hanno già saputo e vogliono trattenersi nell’infanzia, una sindrome di Peter Pan che invade ogni cc d'insulina.
che abbiamo provato quando della vita (e della morte) non sapevamo nulla, quando vivevamo, e basta. E' un luogo comune che il tossicomane non abbia paura di morire. Essendo mortali, la morte non è questione di volerla quanto, semmai, di accettarla, riconoscerla come destino ultimo di questa vita. Il tossico non cerca la morte e, in parte, muore proprio per questo: perché non sa accettarla. Ci siamo?
Non so se aveva ragione,
Ma nutro dubbi a volontà!
Tutto il nulla gli scorre davanti. E infatti pareva che il mondo tacesse in un silenzio di ghiaccio e io ero lì, spaventato senza saperlo, con tutti gli organi in astinenza e la schiena coperta da uno strato di congela, magro, i capelli scompigliati dal vento, la camicia aperta che ad ogni raffica di vento si gonfiava come una vela per sbattere poi contro lo scarno albero del petto. Spaventato come quella volta che decisi di disintossicarmi in una clinica a Forlì (forse ero al decimo tentativo ufficiale) quando alla vista degli occhi gonfi di mia madre, crollai giusto il tempo per scaricare diversi livelli d’angoscia procurati da un farmaco ospedaliero che ancora oggi vorrei capire perché me lo avessero somministrato con tanto e inutile accanimento terapeutico.
Philip Seymour Hoffman |
Ricoveri
Furibondi
Era il Catarpresan (Clonidina), da stendere due cavalli con una capsula gigante, quella da 1000. Era, perché ora non è più nella Farmacopea mondiale perché ritenuto estremamente invasivo e superato con farmaci più leggeri ma incisivi lo stesso, il bottone con cui spegnevi l'interruttore, ma quando calava era tremendo, da sudare 7 lenzuola e 8 cuscini. E' un modificatore dell’umore che agisce sui centri nevralgici del sistema nervoso e blocca i ricettori del dolore sprigionando un'azione di vuoto che almeno ti stende e non ti rende cosciente del dolore che si prova a disintossicarsi.
Non so
perché piangevo,
anche se di motivi ne avevo a mazzi, ma il motivo preciso non lo riuscivo ad identificare. Il Catarpresan ti metteva nudo. Mi ricoverai per smaltire due furibonde intossicazioni in contemporanea, quella da metadone e da eroina. Ero consapevole che si stava abbattendo su di me una montagna di sensazioni irriguardose e dolori metafisici: sudore, pressione corporea alta e bassa, stati di incoscienza, ossa frantumate, deliri mentali, naso gocciolante, pensieri che si accavallavano senza offrire spazio alle distinzioni, sensazioni fobiche e paranoie.
Le percezioni
che giravano
intorno, non possono essere spiegate, almeno a parole, forse le immagini aiutano in questo senso. Erano momenti di profonda alterazione visionaria e generalizzata. Parlare con gli altri era impossibile, con gli altri, in quelle penose condizioni ci si può solo lamentare. Incredibile difficoltà a coniugare i propri pensieri con le parole, mutismo imperante, brivido cerebrale.
Passai cinque giorni in quelle condizioni. Le ossa comunicavano dolori come fossero state macellate da uno Scania che si divertiva passarci sopra ogni mezz’ora. Nei giorni dopo l’autentica tempesta, rimasi in ospedale, perché non ero ancora presentabile in società.
Tutto
il mio nulla
il mio nulla
Guardavo fuori, attraverso una vetrata dell’ospedale, alcuni ragazzi, fra me e loro avvertivo una distanza incolmabile. Io ‘abitavo’ da un’altra parte, un altro umanoide rispetto a loro, implacabilmente agonizzante e primitivo del mondo costruito, messo a nudo di ogni maschera capace d’indossare, colpiva una sensazione ancora tanto netta quanto bruciante come benzina sul fuoco. Ogni azione compissi, un passo, scendere dal letto, mettere le ciabatte, alzare il braccio, infilare la vestaglia, portare alla bocca la coscia di pollo bollita, bere, fumare, era un agire con la testa colma di assenza, sensazione che si prova dopo essersi spurgati di molte schifezze chimiche. Una condizione che non so paragonare a nulla se non al nulla stesso. Un vuoto insopportabile, per un'esistenza più vuota a questo mondo di quella assillata dalla continua ricerca del divertimento propria di chi vive sull'orlo del precipizio della noia.
Fottutamente
presente al mio crollo
Era la dimensione dell’assenza, che equivaleva a dire: e adesso? Cosa faccio, ora che ho le vene pulite? sono sicuro di volerle tenere così linde? E per quanto tempo? Ci riuscirò? La risposta in realtà la conoscevo e sapevo benissimo che appena fuori mi sarei diretto con cinquanta mila lire alla latteria del centro per farmi una pera. Ma non volevo pensarci.
Così m’illudevo che c’è l’avrei fatta grazie anche all'aiuto di un cane che avrei comprato appena fuori dall'ospedale. Ero ancora stravolto dalle scimmie sbattute nell'arco di qualche giornata in quell'ospedale anonimo appena fuori Forlì e il fatto di essermi pulito il sangue mi faceva sentire fottutamente più presente, giorno dopo giorno. Pensai d’imbottirmi con una botta di psicofarmaci, giusto per depistarmi un po’ e scomparire nel Nirvana. Tuttavia l’importante in quel momento era che fossi ritornato nel mondo ingannandomi per l'ennesima volta. Il papaverino aveva scemato ogni suo effetto e l’Io stava riaffiorando ferocemente e senza che ci capissi nulla.
“Dimmi dove mi porti, anche senza cuor, ti ringrazierò”
“La fuente”, canzone messicana